Una recente sentenza della Corte d’Appello di Genova (n. 251/2017, I Sez. Civile), giunta a conclusione di un lungo procedimento giudiziario seguito dallo studio, ha affermato alcuni importanti principi distintivi tra rapporto di lavoro autonomo e subordinato.

La vicenda prende le mosse da una maxi-sanzione per lavoro nero irrogata nel 2011 dalla (allora) Direzione Provinciale del Lavoro in seguito ad accesso ispettivo presso una piccola impresa, che si occupava di vendita, riparazione e noleggio di macchinari. In particolare, la DPL contestava che i due conducenti dell’autocarro intestato al titolare dell’impresa (due pensionati) fossero dipendenti non risultanti dai libri obbligatori, e non quindi prestatori occasionali di lavoro autonomo, come invece sostenuto dall’impresa e come risultava dall’esame dei documenti esibiti.

Dopo infruttuoso ricorso al competente Comitato Regionale per i Rapporti di Lavoro l’ordinanza-ingiunzione veniva impugnata avanti al Tribunale di Chiavari. Si costituiva in giudizio la DPL, contestando il ricorso e chiedendo confermarsi integralmente la validità dell’ordinanza-ingiunzione.

La difesa della ricorrente sottolineava, tra l’altro, che il rapporto lavorativo intercorso tra l’impresa e i due conducenti del mezzo dovesse essere considerato di natura autonoma, giacché:

  • All’occorrenza, e in modo del tutto saltuario, i due conducenti venivano contattati telefonicamente dalla ditta per svolgere singole prestazioni di trasporto: compatibilmente con la loro disponibilità, negli orari e nei tempi più consoni alle loro esigenze, venivano fissate una data e un’ora per l’effettuazione del viaggio.
  • Entrambi avevano svolto prestazioni a favore dell’impresa per meno di trenta giornate annue, e per importi complessivi inferiori a € 5.000,00 annui;
  • Non vi era mai stata alcuna dipendenza gerarchica  e l’impresa non aveva mai esercitato alcun potere disciplinare sui lavoratori;
  • Per ogni singolo trasporto i due conducenti del mezzo rilasciavano regolare ricevuta per prestazione occasionale, dall’importo della quale era detratta la ritenuta d’acconto, versata direttamente all’Erario dall’impresa; l’importo versato variava in funzione della durata temporale della prestazione;
  • Il trasporto era attività del tutto occasionale e marginale nella organizzazione del lavoro dell’impresa, che si occupa di vendita, riparazione e noleggio di macchinari.

Questi elementi venivano provati nel corso dell’istruttoria, di talché, secondo la prospettazione della ricorrente, le prestazioni lavorative dovevano considerarsi ricomprese tra quelle previste dall’art. 61 del d. lgs. 276/2003 e l’art. 4 della legge n. 30/2003 (cosiddetta “Legge Biagi”), ossia prestazioni occasionali di lavoro autonomo. Devono intendersi quali prestazioni occasionali i rapporti di durata complessiva non superiore, nell’anno solare, a trenta giorni con lo stesso committente, e il compenso complessivo annuo che il prestatore percepisce dallo stesso committente non deve superare i 5.000 Euro. Entrambi i parametri erano stati rispettati dalla ricorrente.

Il Tribunale di Chiavari accoglieva il ricorso, scrivendo tra l’altro in sentenza:

La limitata prestazione di attività nell’anno, l’assenza di una continuità, di un orario imposto, di una retribuzione fissa, l’assenza di direttive, controlli, esercizio di potere disciplinare da parte della titolare della ditta unitamente alla volontà formalmente risultante tra le parti di voler instaurare solo rapporti di prestazione di lavoro occasionale, sono tutti elementi che portano a non ritenere dimostrata, complessivamente considerati, la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato, come invece sostenuto dalla DTL.

Impugnavano la sentenza sia la Direzione Provinciale del Lavoro sia il Ministero del Lavoro, entrambi assistiti e difesi dall’Avvocatura dello Stato, per sentire “annullare e/o riformare la sentenza […], rigettando il ricorso introduttivo in quanto infondato in fatto e in diritto”. L’impresa si costituiva anche in questo grado di giudizio, chiedendo il rigetto dell’appello.

La Corte d’Appello di Genova, con la sentenza qui in esame, preliminarmente dichiarava il difetto di legittimazione attiva del Ministero del Lavoro, poiché

come più volte evidenziato dalla Suprema Corte, la L. 24 novembre 1981, n. 689, art. 23, identifica con chiarezza nell’autorità che ha emesso l’ordinanza-ingiunzione il soggetto cui è attribuita la legittimazione processuale a contraddire nel giudizio di opposizione avverso il detto provvedimento. La norma conferisce, quindi, a detta autorità (ancorché periferica) un’autonomia funzionale dalla quale discende la sua qualità di parte, che non è limitata al giudizio di merito (nessuna limitazione in tal senso è infatti dato di desumere dal dettato normativo), ma si estende all’intero arco del processo, e dunque anche al giudizio di Cassazione (Cass. 20/07/2015, n. 15169; Cass. 02/04/2015, n. 6788; Cass. 07/07/2006, 15596; Cass. 18/05/2006, n. 11752; Cass. 09/02/1999, n. 1091). Pertanto, essendo stata emessa l’ordinanza ingiunzione nella fattispecie dalla D.T.L., la legittimazione ad impugnare deve riconoscersi solo in capo a quest’ultima.

Nel merito, la Corte d’Appello osservava come

i due autisti hanno precisato di avere lavorato a chiamata, saltuariamente, per pochi giorni all’anno […] e che, al momento del trasporto, si limitavano a ritirare il camion dalla ditta […], con la bolla di accompagnamento e l’indicazione del luogo di destinazione. Alla fine di ogni viaggio presentavano un foglio con le ore lavorate, sulla base del quale emettevano la ricevuta per le ore lavorate e venivano retribuiti al netto della ritenuta. […] L’azienda concordava la data degli incarichi, di volta in volta, con i signori […], subordinatamente ai loro impegni, rimandando i trasporti ogniqualvolta questi ultimi non erano disponibili per impegni personali.

L’esito dell’istruttoria svolta consente di ritenere che il rapporto intercorso tra […] e i signori […] integri, piuttosto, un rapporto di prestazioni occasionali, ai sensi della legge Biagi n. 30/2003 e del d.lgs. 276/2003, ovvero, prestazioni lavorative di natura autonoma, realizzate a favore di un soggetto, senza il vincolo della subordinazione e con il carattere dell’occasionalità, per le quali non è richiesta la partita Iva, in quanto il corrispettivo versato dal datore di lavoro è soggetto ad una ritenuta d’acconto pari al 20% dell’importo del compenso.

La legge Biagi ha stabilito per il lavoro occasionale limiti ben precisi sia in termini di tempo, che di valore, al fine di evitarne l’abuso, in quanto spesso veniva utilizzato anche in presenza di rapporti caratterizzati da una certa continuità o di breve durata, ma ripetuti. Questa figura contrattuale, prevedendo che il lavoratore presti la propria opera al servizio del committente, non può durare più di 30 giorni nel corso dell’anno solare, né far percepire un compenso che superi i cinquemila euro e il contratto può essere concluso per qualsiasi genere di attività. Esaminando le ricevute redatte dai due autisti […] si può ricavare che l’importo complessivo annuo di compensi e il numero di giorni lavorati dagli autisti non hanno superato i limiti imposti dalla normativa […].

In ogni caso, si sottolinea come l’istruttoria svolta nel corso della causa e la precedente attività di indagine della D.T.L., comunque, non abbiano fornito la prova della sussistenza di subordinazione nei rapporti di lavoro intercorsi tra la ditta e gli autisti. La prestazione dedotta in giudizio è estremamente elementare, ripetitiva e predeterminata nelle sue modalità di esecuzione, il criterio rappresentato dall’assoggettamento del prestatore all’esercizio del potere direttivo, organizzativo e disciplinare non è significativo ai fini della distinzione tra rapporto di lavoro autonomo e subordinato ed occorre, pertanto, fare ricorso ai criteri distintivi sussidiari, quali la continuità e la durata del rapporto, le modalità di erogazione dei compensi, la regolamentazione dell’orario di lavoro, oltre che la sussistenza di un potere di autorganizzazione in capo al prestatore.

La Corte genovese respingeva quindi l’appello intercorso, nuovamente condannando gli appellanti al rimborso delle spese di lite.